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Pillole di Mercato

(47° settimana - anno 2025)

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Citazione del giorno:

Hermann Hesse: “Quando siamo davvero noi stessi, tante persone si allontanano, ma questo crea lo spazio affinché possano arrivare le persone giuste”

 

Negli ultimi giorni i mercati mostrano un tratto comune: la sensazione di una bussola smagnetizzata. Gli indici si muovono a scatti, reagiscono in modo sproporzionato a qualsiasi notizia e procedono “a tentoni”, come se mancasse una direzione chiara. E ogni volta che accade, parte la caccia al colpevole: si tenta di attribuire il movimento a “qualcuno” o a “qualcosa”. La verità, però, è che i mercati raramente si muovono per una sola ragione; esistono a volte fattori dominanti, come un cigno nero, ma nella maggior parte dei casi è l’intreccio di più dinamiche a orientare i prezzi. È qui che voglio portarti: non solo capire cosa è successo in questi giorni, ma inserirlo dentro una cornice più ampia, con lo sguardo rivolto anche al medio periodo. Lo shutdown più lungo della storia è finalmente finito e, d’istinto, verrebbe da pensare che i mercati dovessero festeggiare. Una fonte di incertezza in meno può dare sollievo, certo, ma la realtà che i mercati hanno colto subito dopo la riapertura è un po’ diversa. Per quasi un mese l’economia americana ha viaggiato alla cieca: niente dati ufficiali, niente revisioni macro, nessuna pubblicazione degli indicatori governativi “ufficiali”. Un vero blackout informativo che ha lasciato investitori, analisti e istituzioni senza la loro materia prima: i dati. Quando togli ai mercati i numeri con cui costruiscono le aspettative succede sempre la stessa cosa: il nervosismo sale, le previsioni si confondono e gli investitori, muovendosi nel buio, diventano ipersensibili a qualsiasi titolo o voce “negativa” che rimbalza sui giornali. Il vero problema è che in questo periodo si è accumulato un arretrato di diverse settimane di numeri mancanti, lavoro, inflazione, consumi, fiducia, produzione, come guidare un’auto con la plancia strumenti spenta: la velocità c’è, ma non sai se stai correndo verso una curva, una salita o un muro. Nel frattempo, sono usciti solo alcuni indicatori “non ufficiali”, come ISM o ADP, e da quelle poche letture emerge sempre lo stesso quadro: economia resiliente, mercato del lavoro che si raffredda ma non cede e inflazione che fatica a scendere ai livelli desiderati dalla Fed. Questi non sono indicatori “unici” per misurare inflazione o occupazione, ma una navigazione generale; lasciano margini di interpretazione e, come sappiamo, ciò che i mercati tollerano meno è l’incertezza. Ed è lì che compaiono movimenti nervosi e volatilità in aumento. In sintesi, lo scenario che abbiamo davanti è un mercato iper-reattivo che ingrandisce qualsiasi notizia, un VIX più nervoso del solito pronto a muoversi su variazioni minime e rotazioni settoriali incoerenti, con il tech che scende mentre i semiconduttori salgono. La fine dello shutdown avrebbe dovuto portare sollievo, ma sta accadendo l’opposto: il sistema si ritrova con settimane di numeri compressi e accumulati, pronti a riversarsi tutti insieme. È come se l’economia americana avesse premuto “pausa” sui dati, ma non sulla realtà; ora che la pausa è finita il mercato teme cifre in grado di cambiare la narrativa da un giorno all’altro. Il punto è semplice: il mercato sta scontando più tagli dei tassi di quanti la Fed sembri avere in mente. Da settembre gli investitori si sono posizionati come se la banca centrale dovesse seguire un percorso definito di riduzioni, nonostante Powell ripeta che le decisioni sono prese meeting per meeting, mentre l’ultimo verbale indica un tasso complessivo per fine 2026 al 3,6%. Tradotto: da qui in avanti circa tre tagli, mentre il mercato ne prezza quasi il doppio. Qui nasce l’attrito: senza dati ufficiali e guardando solo indizi come l’ISM, si continua a leggere inflazione ancora alta, lavoro che si raffredda ma resta stabile e crescita resiliente. Se i dati “in ritardo” confermassero questo quadro, potrebbero abbassare ulteriormente le aspettative sui tagli oggi scontati. Non è un’impressione: le probabilità di un taglio sono scese dal 90% di inizio ottobre al 50%. Nei prezzi c’è già dentro ciò che ci si aspetta dal futuro; quando l’aspettativa cambia, i mercati si riadattano, in su o in giù. Per capire bene dove siamo, bisogna guardare alla Fed: è lì che si prendono le decisioni. Dopo un mese, volato quasi alla cieca, potrebbe anche scegliere di fermarsi un attimo prima di toccare le leve. Lo ha detto Powell: “un taglio a dicembre non è certo”. Finché il quadro non è più nitido, meglio accostare e aspettare che la tempesta passi, invece di rischiare danni; e così facendo i tassi non si tagliano. Questo si riflette non solo sulla volatilità di questi giorni, ma anche sui movimenti del dollaro, tornato a mostrare un po’ di forza dopo mesi di calma, e sui rendimenti obbligazionari. Ma come dicevamo all’inizio non è mai un solo fattore a muovere davvero i mercati: dobbiamo guardare da vicino la liquidità che, contrariamente a quanto molti pensano, ha un impatto diretto su tutto il sistema finanziario. Se ne parla da settimane. Immagina il mercato della liquidità come un grande serbatoio da cui le banche attingono ogni giorno per prestarsi denaro, finanziare le imprese, comprare titoli. Quel serbatoio si è svuotato più velocemente del previsto. Il motivo è un doppio drenaggio, arrivato quasi in contemporanea, che ha inciso sull’effettivo costo del denaro. Da un lato, la Federal Reserve stava già riducendo la liquidità con il QT, lasciando scadere i titoli in bilancio senza sostituirli, anche se a dicembre inizierà la manovra opposta, il QE, per stabilizzare la parte di liquidità del sistema che ha iniziato a entrare in tensione. Basta guardare le riserve bancarie scese da oltre 3,4 trilioni a circa 2,8; il mercato dei repo finito ai minimi storici; o, meglio ancora, il balzo dello Standing Repo Facility, di solito quasi inutilizzato, che questa volta ha toccato il picco più alto dalla sua istituzione recente: oltre 30 miliardi di dollari richiesti in una sola sessione, il valore più elevato dal 2020. È un segnale evidente che il sistema bancario inizia a mostrare qualche crepa nella capacità di autofinanziarsi, con banche che preferiscono rivolgersi direttamente alla Fed invece di scambiarsi liquidità tra loro, una dinamica che in passato ha anticipato momenti di stress più pesanti, come nel 2019. Lo Standing Repo Facility è un bancomat d’emergenza: una banca in carenza di fondi deposita collateral di qualità e ottiene i dollari necessari. Quando tante banche lo usano insieme, significa che la liquidità sta finendo e il sistema è sotto pressione. Il secondo drenaggio è arrivato dal governo, tramite lo shutdown. Per via della chiusura non ha potuto utilizzare molte entrate fiscali e altre risorse: il TGA, il conto del Tesoro presso la Fed, si è gonfiato rapidamente, circa 1.000 miliardi di dollari in poco più di un mese. Ogni dollaro che finisce lì esce dal sistema bancario e resta inattivo, come chiuso in un cassetto durante lo shutdown. Collegando i puntini si capisce l’impatto: quando la liquidità scarseggia, per semplice domanda e offerta diventa più costosa. È come al mercato con l’ultima cassa di mele: tutti la vogliono, ma ce n’è una sola e il prezzo sale. È ciò che è accaduto al SOFR, il tasso medio a cui le grandi istituzioni si prestano fondi, schizzato in alto a segnalare un costo del denaro più elevato tra banche. Da qui parte una catena di conseguenze. La prima è l’aumento del costo della leva finanziaria, punto delicatissimo per i grandi hedge fund impegnati nel “basis trade”: comprare Treasury cash e vendere i future sugli stessi, monetizzando la piccola differenza di prezzo. È una strategia che vive di leve altissime 50x, 70x, a volte 100x perché lo spread è minimo. Finché il costo della leva è stabile, il basis trade regge; quando il SOFR sale, il finanziamento esplode all’istante. Così il costo del prestito usato per questi trade aumenta, erodendo profitti già sottili; basta poco perché l’operazione smetta di essere profittevole. A quel punto, quando la leva diventa troppo cara, gli hedge fund chiudono in fretta: vendono i Treasury in portafoglio e non liquidano un miliardo alla volta, ma decine di miliardi in poco tempo. Il flusso di vendita fa scendere i prezzi dei Treasury e spinge in alto i rendimenti. Se i rendimenti salgono troppo in fretta, lo stress si trasferisce su azioni, credito, mutui e valute. Perché comprare azioni quando un’attività a rischio più basso rende il 5%? Prima di chiudere una riflessione ulteriore: ora che lo shutdown è finito potrebbe attivarsi un altro canale sulla liquidità. Il TGA, quel conto “gonfio”, con la riapertura inizierà a svuotarsi per i pagamenti arretrati; questi flussi potrebbero riversarsi direttamente sugli strumenti finanziari, spingendoli ancora più in alto. Massima attenzione a dicembre: la carne al fuoco è tanta e la volatilità è più elevata. In chiusura, il filo rosso è chiaro: la narrativa di mercato ondeggia tra aspettative di tagli e una realtà di dati ancora in arrivo; la Fed, prudente, preferisce vedere prima di agire; la liquidità, compressa da QT e TGA gonfio, ha alzato il costo del denaro, messo alla prova le strategie a leva e irradiato tensioni su bond e azioni. Lo shutdown ha spento per settimane i fari del cruscotto, ma l’auto non si è mai fermata: adesso che le luci si riaccendono, la strada davanti potrà sembrare diversa da come ce la si aspettava, e proprio per questo i prossimi dati, insieme ai flussi di liquidità che rientrano, decideranno se tirare il freno, cambiare corsia o premere ancora sull’acceleratore. L’agenda macroeconomica che va dal 17 al 21 novembre 2025 sarà caratterizzata dalla pubblicazione di diversi dati macroeconomici importanti riguardanti le principali economie del Vecchio Continente e gli Stati Uniti. Ricordiamo che alcuni dati macro degli USA potrebbero essere posticipati o non diffusi a causa dello shutdown del governo, terminato questa settimana. La settimana si apre lunedì con la pubblicazione del PIL giapponese del terzo trimestre. In Italia, l’attenzione sarà rivolta all’inflazione di ottobre, mentre dagli Stati Uniti arriverà l’indice manifatturiero Empire State NY di novembre. Martedì 18 novembre focus sull’Australia, con i verbali della RBA, utili per comprendere il tono di politica monetaria della Banca centrale. Dagli Stati Uniti arriveranno i dati sulla produzione industriale di ottobre e sull’indice NAHB di novembre, che misura la fiducia nel settore immobiliare residenziale. Mercoledì 19 novembre sarà una giornata densa di pubblicazioni: in Asia, il Giappone diffonderà la bilancia commerciale di ottobre, mentre nel Vecchio Continente riflettori su inflazione britannica e prezzi alla produzione, insieme ai dati sull’inflazione dell’Eurozona. Negli Stati Uniti, verranno resi noti i permessi di costruzione di settembre e i consueti dati settimanali EIA su scorte e produzione di greggio. In serata il focus sarà rivolto ai verbali della Fed e alla trimestrale di Nvidia. Giovedì 20 novembre si preannuncia altrettanto ricco di spunti macroeconomici. In Asia, si terrà la riunione della PBoC, mentre in Europa sarà pubblicato il dato dei prezzi alla produzione della Germania di ottobre e i dati sulla fiducia dei consumatori dell’Eurozona. Negli Stati Uniti, focus su una batteria di dati: nuove richieste di sussidi di disoccupazione, indice manifatturiero Fed di Philadelphia, vendite di abitazioni esistenti, Leading Index di ottobre. A completare il quadro, arriveranno anche gli indici manifatturiero e composito della Fed di Kansas City. Venerdì 21 novembre chiuderà la settimana con numerosi aggiornamenti macro. Dal Giappone giungeranno i dati su inflazione e PMI di novembre, mentre nel Regno Unito l’attenzione si concentrerà sulle vendite al dettaglio di ottobre e sugli indici PMI. In Europa, Francia, Germania e area euro pubblicheranno i PMI manifatturiero, dei servizi e composito. Nel pomeriggio, dagli Stati Uniti arriveranno i PMI di novembre e la fiducia dei consumatori dell’Università del Michigan.

 

VENERDI’

I listini dell’Asia hanno chiuso negativi. Nei singoli paesi lo Shanghai composite -0,36%, China A50 -0,63%, Hang Seng ha chiuso -1,47%, il Nikkei -1,83%, l’Australia -1,36%, Taiwan -1,81%, la Corea del Sud Kospi -3,59%, l’indice Indiano Sensex -0,30%. Il nostro FTSEMib -1,70%, Dax chiuso -0,69%, Ftse100 -1,11%, Cac40 -0,76%, Zurigo -0,92%. Lo S&P500 -0,05%, il Nasdaq chiuso +0,13%, il Russell2000 +0,22%. L’oro ha chiuso a 4.082,96 dollari l’oncia, mentre il petrolio ha scambiato a 60,01$ per il wti e 64,33$ per il brent inglese.  Il prezzo del Natural Gas (TTF) quotato sul mercato di Amsterdam è di € 31,250. Lo spread BTP/BUND 75,090. L’indice VIX (il termometro dei mercati cioè la volatilità) chiude a 19,83%. Nel periodo pre-covid si attestava tra il 20% e l’11% e sono i due livelli entro cui vi è tranquillità nei mercati finanziari.

 

PRE-APERTURE

I listini dell’Asia si avviano a chiudere misti. Nei singoli paesi lo Shanghai composite -0,50%, China A50 -1,15%, Hang Seng ha chiuso -1,0,2%, il Nikkei -0,08%, l’Australia +0,02%, Taiwan +0,18%, la Corea del Sud Kospi +1,92%, l’indice Indiano Sensex +0,14%. Al momento in cui scrivo, i mercati europei hanno una previsione di apertura sotto la pari mentre gli Stati Uniti sono positivi. L’oro si attesta a 4.059,51 dollari l’oncia, mentre il petrolio chiude intorno ai valori di 59,35$ per il greggio e 63,79$ per il brent. Infine, il Bitcoin quota 95.025 e l’Ethereum 3.184.

 

Buona giornata e buona settimana.

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