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Pillole di Mercato

(43° settimana - anno 2025)

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Citazione del giorno:

Giordano Bruno: “Vinca dunque la perseveranza, perché, se la fatica è tanta, il premio non sarà mediocre. Tutte le cose preziose son poste nel difficile”

 

l “buy the dip” è davvero finito? Se stai leggendo questa newsletter, probabilmente è una domanda che ti sei posto anche tu negli ultimi giorni. Perché sì, qualcosa di diverso sembra essere accaduto. E non mi riferisco all’ennesima minaccia di dazi che Trump ha lanciato venerdì scorso, innescando l’ennesimo sell-off, ma al vero punto chiave: a chi ha rivolto quella minaccia. Siamo abituati a questo genere di teatrini politici, soprattutto da quando Trump è tornato alla Casa Bianca. Ma questa volta i mercati hanno reagito in modo diverso. Il sell-off di venerdì ha colpito tutti: S&P 500, Nasdaq e Russell 2000. Fin qui nulla di nuovo. La differenza, però, è arrivata nella risalita: mentre i grandi indici americani faticavano a recuperare, il Russell 2000, l’indice delle small cap, è stato il primo a reagire con forza. E non è un caso: a differenza degli altri, non è dominato dalle Big Tech. E proprio lì si nasconde la chiave del momento. Guardando i grafici, emerge un dettaglio importante: nonostante il calo sia stato profondo, il rimbalzo è stato debole e incerto, come se il mercato stesse cercando di capire se fidarsi o meno. In altre parole, il colpo questa volta è arrivato proprio dove nessuno se lo aspettava: sulle Big Tech e, di conseguenza, sul cuore dell’intelligenza artificiale. Dietro ogni chip, server o data center, c’è una materia prima invisibile ma indispensabile: le terre rare. E tutto è partito da Pechino, non da Washington. A ottobre, il Ministero del Commercio cinese ha pubblicato il Notice 61, un documento che cambia completamente le regole del gioco. Dal prossimo 8 novembre, la Cina amplierà la lista dei materiali soggetti a controllo, aggiungendo cinque nuovi elementi rari (olmio, erbio, tulio, europio e itterbio). E dal 1° dicembre, estenderà l’obbligo di licenza anche ai prodotti stranieri che contengano più dello 0,1% di materiali o tecnologie cinesi di raffinazione. Tradotto: un’azienda americana o europea che produce chip o magneti dovrà chiedere il permesso a Pechino se, in qualunque fase del processo, entra in gioco una componente o una tecnologia cinese. Non serve un embargo: basta una licenza discrezionale per controllare chi riceve cosa e quando. Un colpo silenzioso, ma chirurgico, al nervo scoperto dell’economia americana - la catena di approvvigionamento dell’AI. Oggi oltre il 90% della raffinazione mondiale di terre rare avviene in Cina. Un dominio costruito in trent’anni, mentre l’Occidente delocalizzava per tagliare costi e parlava di “transizione verde”. Ora Pechino controlla l’intera filiera e può decidere quando e quanto stringere la presa. E se anche una piccola parte di questa catena si blocca, l’intero sistema AI globale rischia di fermarsi. Trump ha risposto annunciando dazi del 100% su tutte le importazioni cinesi, ma nel giro di 48 ore la Casa Bianca ha invertito la rotta. Il Segretario al Tesoro Scott Bessent e il Rappresentante al Commercio Jameson Greer hanno confermato che il vertice con Xi Jinping si terrà comunque a margine dell’APEC. Poco dopo, lo stesso Trump ha pubblicato su Truth Social: “È stato un brutto momento, ma andrà tutto bene. Penso che troveremo un accordo.” Un passo indietro evidente, a poche settimane dal vertice bilaterale di fine ottobre. Segno che questa volta è la Cina a presentarsi da una posizione di forza. E la spiegazione è semplice: oggi la crescita americana si regge quasi interamente sull’intelligenza artificiale. Secondo un’analisi di Harvard e Fortune, nel primo semestre 2025 il 92% della crescita reale del PIL USA è arrivato dagli investimenti in AI: data center, semiconduttori, GPU, cloud e software di machine learning. Senza di essi, la crescita sarebbe stata appena dello 0,1%. Le Big Tech - Microsoft, Amazon, Google, Meta, Nvidia - hanno investito oltre 300 miliardi di dollari in sei mesi per espandere la capacità computazionale. Mai nella storia americana un singolo settore aveva inciso tanto sul PIL. Oggi la spesa in AI Capex vale oltre l’1% del PIL, più dei beni durevoli e quasi il doppio del comparto auto ed edilizio messi insieme. Ma ogni motore ha il suo punto debole: la dipendenza dalla Cina. Pechino produce il 64% delle terre rare e ne raffina più del 90%. Oltre il 70% dei materiali utilizzati per chip e server AI proviene da fornitori cinesi. Il ribasso di questi giorni, quindi, non è una correzione tecnica, ma il sintomo di una vulnerabilità strutturale. Basta una crepa nella catena dell’AI e l’intero sistema finanziario comincia a tremare. Dopo mesi di rally quasi ininterrotto, i mercati avevano bisogno di respiro. E quello che stiamo vedendo oggi, tra minacce commerciali, crisi bancarie e dati mancanti per via dello shutdown, è più rumore di fondo che reale inversione di trend. Ogni ribasso, per chi ha un processo solido, resta un’opportunità, non un pericolo. Fino a ora, il rialzo azionario è stato alimentato da due forze:

1.     i tagli dei tassi, monitorati al millimetro dalla Fed, ora però “cieca” senza nuovi dati economici;

2.     il boom dell’intelligenza artificiale, che ha sostenuto i multipli e la fiducia.

Oggi entrambi i motori stanno rallentando. E a complicare il quadro si è aggiunta la crisi delle banche regionali americane. Queste banche, la spina dorsale dell’economia reale, stanno affrontando perdite crescenti su mutui e prestiti commerciali. Zions Bancorporation ha accantonato 60 milioni di dollari per coprire crediti inesigibili; Western Alliance ha denunciato frodi su garanzie false; altri istituti come Comerica e Bank OZK hanno segnalato esposizioni simili. Dopo anni di tassi zero, molti prestiti “facili” stanno ora esplodendo sotto il peso del costo del denaro al 5%. La reazione è stata immediata: fuga di depositi verso le grandi banche e i fondi monetari, dove oggi i rendimenti superano il 5%. Risultato: crisi di liquidità e contrazione del credito all’economia reale. Il contesto è aggravato dal Quantitative Tightening: la Fed, riducendo il proprio bilancio da 9.000 a 7.300 miliardi di dollari, ha prosciugato oltre 1.600 miliardi di liquidità dal sistema. Le riserve bancarie sono scese sotto i 3.000 miliardi, vicine al livello di sicurezza minimo, mentre il Reverse Repo Facility è quasi azzerato. Meno liquidità significa più fragilità. E non a caso, la Standing Repo Facility è stata riattivata con 8 miliardi di dollari in due giorni, la prima volta dal 2020. Powell lo sa: il sistema è vicino al limite. Per questo la Fed sta valutando una sospensione del QT entro fine anno, prima che qualcosa si rompa. Ma fermare il drenaggio di liquidità non risolve il problema: semplicemente lo congela. Oggi il sistema americano resta vulnerabile, con debito pubblico record, banche fragili e una crescita concentrata su un unico settore. Non è allarme rosso, ma serve lucidità. Come dico sempre: niente panico, niente scelte impulsive. Solo disciplina e consapevolezza. In questo contesto, continuo a monitorare tre fattori chiave:

·       il comportamento dei Treasury e il differenziale con i rendimenti reali,

·       la forza del dollaro (oggi guidata più dalla scarsità di liquidità che dalla crescita),

·       e il flusso verso beni rifugio come oro e materie prime, il termometro dell’incertezza globale.

Il processo non cambia: osservare, comprendere, decidere. Perché nei mercati, la paura è ciclica, ma il metodo, se è solido, resta. L’agenda macroeconomica che va dal 20 al 24 ottobre 2025 sarà caratterizzata dalla pubblicazione di diversi dati macroeconomici importanti riguardanti le principali economie del Vecchio Continente e gli Stati Uniti. Ricordiamo che alcuni dati macro USA potrebbero essere posticipati finché durerà lo stato di shutdown del governo. La settimana si apre lunedì 20 ottobre con una serie di dati di rilievo provenienti dalla Cina, che pubblicherà il PIL del terzo trimestre, insieme a produzione industriale, vendite al dettaglio, tasso di disoccupazione e indice dei prezzi delle abitazioni. In mattinata, la Germania diffonderà i prezzi alla produzione di settembre, indicativi delle pressioni inflazionistiche interne, mentre nel pomeriggio dagli Stati Uniti arriverà il Leading Index. Martedì 21 ottobre sarà una giornata priva di pubblicazioni di rilievo macroeconomico. Mercoledì 22 ottobre si apre con la bilancia commerciale giapponese di settembre. Dalla Gran Bretagna arriveranno i dati su inflazione e prezzi alla produzione, importanti per le valutazioni della Bank of England, mentre nel pomeriggio dagli Stati Uniti giungeranno i consueti dati settimanali su scorte e produzione di greggio, con possibili riflessi sul prezzo del petrolio. Giovedì 23 ottobre vedrà un ritorno dei dati americani, con il Chicago Fed National Activity Index, le nuove richieste di sussidi di disoccupazione e le vendite di abitazioni esistenti. Dall’Eurozona arriverà la fiducia dei consumatori di ottobre, mentre la giornata si chiuderà con l’indice manifatturiero e composito Fed di Kansas City, che offrirà ulteriori segnali sull’attività industriale statunitense. Infine, venerdì 24 ottobre sarà la giornata più intensa della settimana, con una raffica di dati provenienti da tutte le principali economie. In Asia, Australia e Giappone verranno rilasciati i rispettivi PMI manifatturieri, servizi e compositi, insieme ai dati giapponesi su inflazione e prezzi al consumo. Nel Vecchio Continente, focus su vendite al dettaglio del Regno Unito, fiducia dei consumatori francesi, tasso di disoccupazione e prezzi alla produzione spagnoli, oltre ai PMI di ottobre di Francia, Germania, Eurozona e Regno Unito. Negli Stati Uniti, l’attenzione sarà rivolta all’inflazione di settembre, ai PMI, alla fiducia dei consumatori dell’Università del Michigan e alle vendite di case nuove. Con nove giorni di ritardo, il Bureau of Labor Statistics diffonderà l’indice dell'inflazione USA nel mese di settembre.

 

VENERDI’

I listini dell’Asia hanno chiuso negativi con qualche eccezione. Nei singoli paesi lo Shanghai composite -1,19%, China A50 -0,75%, Hang Seng ha chiuso -1,69%, il Nikkei -1,35%, l’Australia -0,81%, Taiwan -0,90%, la Corea del Sud Kospi +0,12%, l’indice Indiano Sensex +0,47%. Il nostro FTSEMib -1,45%, Dax chiuso -1,82%, Ftse100 -0,86%, Cac40 -0,18%, Zurigo -0,45%. Lo S&P500 +0,53%, il Nasdaq chiuso +0,52%, il Russell2000 -0,60%. L’oro ha chiuso a 4.213,30 dollari l’oncia, mentre il petrolio ha scambiato a 57,15$ per il wti e 61,29$ per il brent inglese.  Il prezzo del Natural Gas (TTF) quotato sul mercato di Amsterdam è di € 31,816. Lo spread BTP/BUND 80,080. L’indice VIX (il termometro dei mercati cioè la volatilità) chiude a 20,78%. Nel periodo pre-covid si attestava tra il 20% e l’11% e sono i due livelli entro cui vi è tranquillità nei mercati finanziari.

 

PRE-APERTURE

I listini dell’Asia si avviano a chiudere ben intonate. Nei singoli paesi lo Shanghai composite +0,69%, China A50 +0,89%, Hang Seng ha chiuso +2,42%, il Nikkei +2,89%, l’Australia +0,34%, Taiwan +1,50%, la Corea del Sud Kospi +1,23%, l’indice Indiano Sensex +0,55%. Al momento in cui scrivo, i mercati europei hanno una previsione di apertura positiva così come gli Stati Uniti. L’oro si attesta a 4.279,45 dollari l’oncia, mentre il petrolio chiude intorno ai valori di 57,00$ per il greggio e 61,13$ per il brent. Infine, il Bitcoin quota 110.421 e l’Ethereum 4.048.

 

Buona giornata e buona settimana.

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