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Pillole di Mercato


(37° settimana - anno 2025)

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Citazione del giorno:

Coelho P.: “Non ti arrendere mai. Di solito è l’ultima chiave del mazzo che apre la porta”

 

Settimana densa di segnali e di sorprese, con gli investitori concentrati soprattutto sui dati americani del lavoro e, a cascata, sulle implicazioni per la Fed. Ad agosto gli Stati Uniti hanno creato appena 22.000 posti (contro i 75.000 attesi), il tasso di disoccupazione è salito al 4,3% (massimo dal 2021) e, soprattutto, sono arrivate revisioni pesanti: giugno è stato rivisto a –13.000 unità (minimo dal 2020) e luglio leggermente sotto le attese. La media a tre mesi scende così a 29.000 nuovi occupati. Il quadro è corroborato da altri indicatori: le offerte JOLTS sono ai minimi da dieci mesi, i piani di assunzione di agosto sono scesi al livello più basso dal 2009 e gli annunci di licenziamenti sono i più alti per un mese di agosto dal 2020. Sul fronte retribuzioni, i salari orari medi sono saliti dello 0,3% m/m e del 3,7% a/a (un filo sotto il 3,8% previsto): una dinamica moderata, non esplosiva, ma neppure così debole da tranquillizzare del tutto la banca centrale in un contesto in cui i primi effetti tariffari iniziano ad affacciarsi sui prezzi. La lettura che i mercati hanno dato è stata rapida: indici in rialzo (il classico schema bad news = good news), dollaro in calo, rendimenti in discesa e propensione al rischio che si riaccende proprio perché un raffreddamento del lavoro “sblocca” la Fed. Oggi la probabilità implicita di un taglio da 25 pb a settembre è intorno al 97%. Resta però una divergenza non banale rispetto ai verbali della Fed: per il 2026 l’istituto segnala un sentiero con meno tagli rispetto a quanto prezzato dagli investitori. In altre parole, il primo step appare vicino, ma il ritmo successivo resta tutto “dato dopo dato”, e ogni sorpresa su prezzi o occupazione può rimettere in discussione la traiettoria dell’allentamento. Anche perché né i mercati né la Fed dimenticano che l’inflazione, nelle letture più recenti, mostra i primi riflessi dei dazi sui beni, rendendo più delicato l’equilibrio fra sostegno alla crescita e stabilità dei prezzi. Guardando all’Europa, il grande tema del 2025 è la Germania, sempre meno “locomotiva” e sempre più freno per l’area. Nel secondo trimestre il PIL tedesco si è contratto dello –0,3%, tre volte peggio della stima preliminare, segnalando non solo rallentamento ma vera e propria retrocessione. A pesare è soprattutto la manifattura, con l’automotive al centro: dopo lo stop al gas russo, i costi energetici hanno eroso i margini e le imprese hanno tentato di recuperarli alzando i prezzi, perdendo però competitività proprio mentre la Cina proponeva listini più bassi. I dazi hanno dato il colpo di grazia: nei primi sei mesi del 2025 le esportazioni auto verso gli USA sono scese dell’8,6%, con 51.000 posti persi in un anno (quasi il 7% della forza lavoro del comparto). I conti aziendali parlano chiaro: Mercedes-Benz ha visto i profitti crollare del 70%, Volkswagen e Porsche sono sulla stessa rotta. Il mercato del lavoro mostra le prime crepe, con oltre 3 milioni di disoccupati (massimo da più di dieci anni) e un tasso al 6,3%; la fiducia dei consumatori a luglio è scivolata a –23,6. Per la BCE il quadro si complica. Da un lato c’è la crescita anemica dell’area, aggravata dalla frenata tedesca e dalle incertezze politiche francesi; dall’altro un’inflazione che a luglio è risalita al 2,1% e si muove al rialzo da maggio. La banca centrale resta prudente e divisa: c’è chi spinge per ulteriori tagli e chi ritiene che, con un tasso reale intorno al 2% forse già “lievemente accomodante”, sia meglio muoversi solo alla luce dei dati, pronti a intervenire se la fiducia dovesse deteriorarsi o se i prezzi alimentari ripartissero. A complicare la regia c’è anche “l’effetto Fed”: se Powell accelerasse sui tagli, la BCE potrebbe essere costretta a seguirne il passo per evitare un eccessivo apprezzamento dell’euro e condizioni finanziarie più restrittive del desiderato. Dentro questo mosaico globale di lavoro che rallenta, inflazione da monitorare, dazi e politica che interferisce con la tecnica, si inserisce la reazione degli asset. E proprio qui, per chiudere il cerchio, entra in gioco l’oro. Molti titoli hanno celebrato nuovi massimi del metallo giallo con toni stupefatti, ma con i numeri e i comportamenti osservati oggi c’è poco di sorprendente. L’oro non è solo l’ombrello anti-inflazione o anti-crisi: è l’asset senza controparte che storicamente regge quando la fiducia s’inceppa. È accaduto negli anni ’70 con l’inflazione, nel 2008-09 con la grande crisi finanziaria, nel 2011-13 con il debito europeo, nel 2020-22 tra pandemia e tensioni geopolitiche. Ridurlo al solo ruolo di “bene rifugio” è fuorviante: il suo prezzo risponde a quattro forze che oggi spingono nella stessa direzione. La prima è la funzione difensiva: in fasi di incertezza – guerre, crisi, shock geopolitici – i capitali migrano dagli asset risk-on verso oro e valute rifugio come dollaro, franco svizzero e yen. La seconda è macro e spesso ignorata: l’inversa correlazione con i rendimenti governativi. Con il 2024 che ha visto inflazione in calo e banche centrali avviare tagli, la parte breve della curva si è ammorbidita; rendimenti più bassi rendono l’oro relativamente più attraente rispetto a un Treasury al 5%. Quando il mercato sconta una Fed meno restrittiva (non solo la Fed, anche altre banche centrali), l’appetito per il metallo sale. La terza forza è il sostegno degli acquirenti istituzionali: le banche centrali continuano a comprare lingotti per rafforzare le riserve nei momenti di instabilità e sfiducia, con acquisti 2025 attesi attorno alle 1.000 tonnellate, in linea con 2022-2024. La quarta è l’utilizzo come collaterale e, più in generale, il suo ruolo nella progressiva dedollarizzazione: negli ultimi vent’anni la quota di dollari nelle riserve globali è scesa dal 71% del 2001 a circa il 58% nel 2024, mentre l’oro ha guadagnato peso come asset strategico. In un mondo in cui i veri rifugi sono bond di qualità, yen, franco, dollaro e oro, se i flussi escono da uno devono pur trovare un approdo: con dazi, BRICS più assertivi e un’America percepita come meno prevedibile, il metallo prezioso è la scelta naturale. Su questo si innestano i fattori di fiducia specifici degli Stati Uniti: la politicizzazione della Fed e di altre istituzioni (prima Powell, poi le polemiche su dati BLS, fino al caso Lisa Cook) è mal digerita dai mercati; molti paesi riducono l’esposizione a Treasury o a dollari e incrementano asset alternativi. Il risultato si vede in un biglietto verde sceso di oltre il 10% dall’inizio del mandato Trump, aste dei titoli lungi non brillanti (come il trentennale del 7 agosto con bid-to-cover ai minimi da due anni), un debito elevato e più difficile da “vendere”. Tutto questo ha un nome: sfiducia. Non significa che l’oro salirà per sempre – nessuno ha la sfera di cristallo – ma aiuta a capire perché oggi sia sui massimi storici. Il resto lo faranno, come sempre, i dati: se il mercato del lavoro rallenta senza deragliare, se l’inflazione non si riaccende e se la politica evita scossoni alle banche centrali, la traiettoria rimarrà leggibile; in caso contrario, prepariamoci a reagire, lettura dopo lettura. L’agenda macroeconomica che va dall’8 al 12 settembre 2025 sarà caratterizzata dalla pubblicazione di diversi dati macroeconomici importanti riguardanti le principali economie del Vecchio Continente e gli Stati Uniti. L’attenzione degli operatori sarà rivolta in particolare alla riunione di politica monetaria della BCE e sulla conferenza stampa della presidente Christine Lagarde. Lunedì 8 settembre il Giappone diffonderà il PIL del secondo trimestre, mentre dalla Cina arriverà la bilancia commerciale di agosto. In Europa, la Germania pubblicherà i dati su produzione industriale e bilancia commerciale di luglio, mentre per l’area euro sarà resa nota la fiducia degli investitori Sentix di settembre. In chiusura di giornata, attenzione agli Stati Uniti con le aspettative di inflazione dei consumatori calcolate dalla Fed di New York. Martedì 9 settembre sarà una giornata più tranquilla: in Europa si attende la fiducia dei consumatori francesi di luglio, mentre negli Stati Uniti verrà pubblicato il rapporto NFIB di agosto sulla fiducia delle piccole imprese. Molto più intensa la giornata di mercoledì 10 settembre, con dati sull’inflazione e prezzi alla produzione cinesi di agosto nelle prime ore, seguiti in mattinata dalla produzione industriale italiana di luglio. Negli Stati Uniti il focus sarà sui prezzi alla produzione di agosto, sulle vendite del commercio all’ingrosso di luglio e sul consueto aggiornamento settimanale delle scorte di greggio da parte dell’EIA. Il momento clou della settimana sarà però giovedì 11 settembre, quando l’OPEC pubblicherà il suo report mensile e, soprattutto, la BCE terrà la riunione di politica monetaria. Alle 14:15 è attesa la decisione sui tassi, seguita alle 14:45 dalla conferenza stampa della presidente Lagarde, appuntamento che i mercati seguiranno con la massima attenzione. Sempre giovedì, in Giappone usciranno i dati sui prezzi alla produzione di agosto, mentre dagli Stati Uniti arriveranno i numeri sull’inflazione di agosto e sulle nuove richieste settimanali di sussidi di disoccupazione. La settimana si chiuderà venerdì 12 settembre con una raffica di indicatori macro. Dal Giappone giungeranno i dati sulla produzione industriale di luglio, mentre dal Regno Unito sono attesi PIL mensile, produzione industriale e bilancia commerciale di luglio. In Europa verranno diffusi i dati sull’inflazione di agosto in Germania, Francia e Spagna. Nel pomeriggio, infine, l’attenzione tornerà agli Stati Uniti con la lettura preliminare della fiducia dei consumatori dell’Università del Michigan per settembre.

 

VENERDI’

I listini dell’Asia hanno chiuso positivi ad esclusine dell’India. Nei singoli paesi lo Shanghai composite +0,33%, China A50 +0,36%, Hang Seng ha chiuso a +0,62%, il Nikkei +0,78%, l’Australia +0,44%, Taiwan ha chiuso a +1,04%, la Corea del Sud Kospi +0,12%, l’indice Indiano Sensex chiuso -0,19%. Il nostro FTSEMib -0,91%, Dax chiuso -0,73% Ftse100 -0,09%, Cac40 -0,31%, Zurigo -0,10%. Lo S&P500 -0,32%, il Nasdaq chiuso -0,03%, il Russell2000 +0,48%. L’oro ha chiuso a 3.640,77 ollari l’oncia, mentre il petrolio ha scambiato a 62,03$ per il wti e 65,65$ per il brent inglese.  Il prezzo del Natural Gas (TTF) quotato sul mercato di Amsterdam è di € 31,969. Lo spread BTP/BUND 87,090. L’indice VIX (il termometro dei mercati cioè la volatilità) chiude a 15,18%. Nel periodo pre-covid si attestava tra il 20% e l’11% e sono i due livelli entro cui vi è tranquillità nei mercati finanziari.

 

PRE-APERTURE

I listini dell’Asia si avviano a chiudere positivi. Nei singoli paesi lo Shanghai composite +0,20%, China A50 -0,01%, Hang Seng ha chiuso a +0,36%, il Nikkei +1,55%, l’Australia -0,36%, Taiwan ha chiuso a +0,56%, la Corea del Sud Kospi +0,09%, l’indice Indiano Sensex chiuso +0,20%. Al momento in cui scrivo, i mercati europei hanno una previsione di apertura positiva così come gli Stati Uniti. L’oro si attesta a 3.624,65 dollari l’oncia, mentre il petrolio chiude intorno ai valori di 62,60$ per il greggio e 66,28$ per il brent. Infine, il Bitcoin quota 110.920 e l’Ethereum 4.296.

 

Buona giornata e buona settimana.

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