Pillole di Mercato
- Federico Caligiuri
- 14 apr
- Tempo di lettura: 8 min
(16° settimana - anno 2025)

Citazione del giorno:
Albert Einstein: "Se la vostra mente non è aperta, tenete chiusa anche la bocca"
Bond in sofferenza e sale trading in subbuglio mentre si parla di un possibile intervento della Fed o del Tesoro per calmare la situazione. Se guardiamo solo i numeri di fine settimana, potremmo quasi non accorgerci dello scossone che ha travolto il mercato americano. L’S&P 500 segna un balzo di oltre il 5% e i Treasury sono tornati ai valori di febbraio. La settimana, sulla carta, finisce in bellezza. La presidente della Fed di Boston ha dichiarato al Financial Times che la banca centrale è “assolutamente pronta” a intervenire se i mercati si facessero troppo agitati. Al momento tutto fila ancora, anche se l’ipotesi di un intervento non è più un tabù. Gli analisti considerano plausibile una mossa per normalizzare i rendimenti, magari rispolverando vecchi metodi. Per chi ha vissuto i giorni di fuoco, è evidente che il mito degli Stati Uniti come porto sicuro si è affievolito. La guerra dei dazi di Trump ha scosso il mercato obbligazionario in modo epocale e in pochi giorni i rendimenti dei Treasury decennali sono schizzati al 4,49%, con un balzo che non si vedeva da oltre vent’anni. L’ultimo balzo dei rendimenti del decennale USA tocca livelli storicamente associati ai principali crolli finanziari dagli anni ’80 a oggi. Mentre i rendimenti USA volano, il dollaro perde slancio. I Bund tedeschi rimangono stabili e sembrano attrarre la preferenza degli investitori, che guardano al “Vecchio Continente” per mettere al sicuro i propri capitali. La volatilità resta alta e i bruschi rimbalzi intraday evidenziano la tensione emotiva che domina i mercati. La volatilità dell’S&P 500 è tornata su livelli simili a quelli del 2008. Molti economisti di Wall Street temono che questi tira e molla sui dazi possano frenare la crescita americana e offuscare ulteriormente l’immagine degli Stati Uniti come rifugio sicuro. Diverse banche d’affari continuano a ipotizzare un drastico rallentamento e un rischio di recessione importante. Lo scetticismo sugli asset statunitensi si nota anche nell’indebolimento del dollaro, mentre valute rifugio come yen e franco svizzero si rafforzano, assieme all’oro. C’è perfino chi inizia a parlare di dinamiche da mercato emergente, visto che titoli di Stato e valuta sono entrambi sotto pressione, un fenomeno ben poco comune per un sistema solido come quello americano. Per molti, i Treasury restano l’indicatore chiave. Se i rendimenti continueranno a salire, trascinando in alto i tassi sui mutui e sui prestiti, l’economia potrebbe subire un contraccolpo e gli investitori potrebbero proseguire la loro fuga dagli Stati Uniti. Trump ci ricorda sempre che con lui l'incertezza non si ferma mai. Incertezza che sta diventando “tossica” per i mercati. Il mondo finanziario vive con il timore costante di nuovi colpi di scena. Per la Casa Bianca, tutto questo caos sarebbe parte di una strategia precisa. Tenere sulle spine le altre nazioni, anche a costo di far vacillare i mercati, secondo Trump porterebbe gli Stati Uniti a concludere accordi commerciali vantaggiosi. Dopo una fase di sofferenza, sostiene il presidente, arriverà una "età dell'oro" della crescita economica americana. I dazi, secondo i suoi calcoli, porteranno migliaia di miliardi nelle casse federali, soldi da reinvestire in incentivi alle imprese e sgravi fiscali. La teoria parla di un circolo virtuoso capace di risollevare l'economia. Ma cosa succede se poi, nella pratica, le cose vanno storte? Le tasse sulle importazioni, alla fine, vengono generalmente trasferite ai consumatori, facendo salire l'inflazione. E prezzi più alti significano consumi ridotti, il che a sua volta riduce gli introiti delle tariffe stesse. Proprio la paura di questo scenario ha spinto Trump a fare una mezza marcia indietro il 9 aprile, annunciando sui social una pausa di 90 giorni sui cosiddetti "dazi reciproci" applicati a circa 60 paesi e all'Unione Europea. Questo dietrofront è arrivato appena 13 ore dopo che le tariffe erano entrate in vigore, in seguito alle pressioni degli investitori e delle aziende preoccupate per la tempesta nei mercati finanziari. Nessuna pausa per la Cina, il principale bersaglio della guerra commerciale. Anzi, Trump ha addirittura alzato le tariffe sulle merci cinesi dal 104% al 125% dopo che Pechino aveva reagito imponendo dazi dell'84% sulle importazioni americane. Restano inoltre attivi altri dazi settoriali: il 25% sulle automobili straniere importate negli USA, e da maggio anche sui pezzi di ricambio; il 25% su acciaio e alluminio; e una serie di tariffe specifiche contro Messico e Canada, anche se molte aziende possono evitarle grazie all'accordo commerciale USMCA. La pausa annunciata da Trump potrebbe concludersi in due modi: o si negozieranno accordi per eliminare queste misure o, dal 9 luglio, i dazi torneranno in piena forza. Nessuno sa cosa aspettarsi, visto l'atteggiamento imprevedibile della Casa Bianca. Quando Trump ha fatto un passo indietro sui dazi, i mercati hanno reagito con entusiasmo: l'S&P 500 ha registrato un balzo del 9,5%, la migliore performance giornaliera dal 2008. Ma l'incertezza sui prossimi passi del presidente resta altissima. Finché Trump continuerà con annunci a sorpresa e stravolgimenti dell’ultimo minuto, la volatilità sui mercati resterà l’unica costante. La storia ci ha insegnato che ogni volta che i mercati impazzivano, c’è sempre stato un riflesso incondizionato: tutti a rifugiarsi nei titoli di Stato americani. I Treasury, per anni sinonimo di sicurezza assoluta. Oggi invece iniziano a scricchiolare proprio quando servirebbero di più. Nel bel mezzo del panico dei dazi, i bond USA hanno fatto qualcosa di inaspettato: anziché salire, sono crollati. I rendimenti a 30 anni hanno sfiorato il 5%, un livello che non si vedeva dai giorni neri del 2020. Il colpo si è propagato ovunque. Anche Australia, Regno Unito e i mercati emergenti hanno iniziato a perdere fiducia nei propri titoli di Stato. La volatilità dei Treasury a 30 anni esplode come non accadeva da anni. I mercati si sono resi conto che le politiche commerciali di Trump potrebbero scatenare una recessione globale e mettere in difficoltà proprio gli Stati Uniti. In mezzo a tutto questo, c’è un altro elemento che sta facendo tremare le mani a molti operatori: il famigerato basis trade. Una strategia a leva, molto usata dagli hedge fund, che gioca su differenze minuscole tra bond e futures e che rischia di esplodere in faccia agli investitori proprio come nel 2020. E infatti, non mancano le analogie inquietanti con tre anni fa: vendite selvagge, investitori disorientati e nessun vero porto sicuro dove rifugiarsi. C’è chi da tutta la colpa a Trump e le sue guerre commerciali, che hanno irritato investitori importanti come Cina e Giappone, spingendoli a vendere bond americani. Altri parlano di un cambio di aspettative sui tassi, con una Fed che potrebbe non essere più disposta ad allentare la presa. Fatto sta che questa situazione sta facendo sudare freddo anche chi, fino a ieri, dormiva sonni tranquilli pensando ai Treasury come intoccabili. Tutti stanno guardando verso la Federal Reserve. Se le cose peggiorassero ancora, l’intervento potrebbe diventare inevitabile. Ma la Fed si muove solo quando vede che il sistema si sta inceppando davvero, quando il credito smette di circolare e il mercato comincia a rompersi. Con trilions già evaporati dalle borse e affari in stand-by a Wall Street, quanto manca davvero prima che la banca centrale debba entrare in gioco? L’inflazione sembra ormai una storia passata. I dati sull’indice dei prezzi al consumo di marzo sono stati migliori di quanto chiunque potesse ragionevolmente aspettarsi. I prezzi dei generi alimentari sono saliti un pochino (le uova, in particolare, segnano un +60,4% su base annua e fanno sempre notizia sul piano politico), ma nel complesso gli indicatori core dell’inflazione sono stati sorprendentemente positivi. I prezzi “rigidi”, ovvero quelli che di solito è difficile far scendere, hanno toccato il livello più basso dall’inizio del 2022. Le misure “trimmed mean” e “median” sono tutte in calo, segno che la tendenza alla disinflazione è diffusa. La famosa inflazione “supercore” (servizi escluso l’affitto), su cui la Fed ha sempre gli occhi puntati, è crollata di colpo sotto il 3%. Per quanto riguarda l’affitto, che è stato la spina nel fianco dei costi della vita e l’elemento trainante dell’indice generale negli ultimi due anni, ora si trova sotto il 4%. Se poi lo escludiamo completamente, il resto dell’indice aumenta di meno del 2%. Se volessimo proprio trovare il pelo nell’uovo, si potrebbe dire che la minore pressione dei prezzi è in parte dovuta al rallentamento dell’economia innescato dalle prime mosse dell’amministrazione Trump. Ad esempio, le tariffe aeree sono scese (cosa un po’ sorprendente), così come i prezzi degli hotel nella zona nord-orientale degli Stati Uniti: probabilmente un effetto del minore entusiasmo dei canadesi nel visitare i loro vicini a sud. Se mettiamo insieme questi dati con quelli sull’occupazione della settimana scorsa, notiamo che l’economia americana gode di una salute migliore di quanto si credesse qualche mese fa. L’inflazione è quasi tornata nell’intervallo obiettivo e l’occupazione continua a crescere. Come mai, allora, dopo la pubblicazione di questi dati, i mercati statunitensi (e soprattutto il dollaro, fiore all’occhiello della finanza americana) scricchiolano? È qui che entra in gioco la questione della fiducia, delle politiche sui dazi e delle prospettive per il futuro. Forse l’inflazione si sta calmando, ma la sensazione è che sulla valuta pesino altre preoccupazioni, sia politiche che economiche. E, come sempre, i mercati non perdonano l’incertezza. L’agenda macroeconomica che va dal 14 al 18 aprile 2025 sarà caratterizzata da alcuni dati macroeconomici di rilievo per le principali economie del Vecchio Continente e per gli Stati Uniti. A catalizzare l’attenzione degli operatori saranno la riunione di politica monetaria della BCE, la consueta conferenza stampa della presidente Christine Lagarde e i dati dell’inflazione dell’Eurozona, ma non solo. Per quanto riguarda l’Eurozona si attendono la produzione industriale. Per quanto riguarda i singoli Paesi, per la Germania si attendono i prezzi all’ingrosso, gli indici ZEW e i prezzi alla produzione. Per la Francia verranno rilasciati i dati dell’inflazione, mentre per l’Italia l’inflazione e la bilancia commerciale. Per quanto riguarda il Regno Unito, gli operatori monitoreranno il tasso di disoccupazione, le richieste di sussidi di disoccupazione, i salari medi orari e l’inflazione. Passando agli Stati Uniti gli investitori saranno concentrati sulle aspettative d’inflazione dei consumatori rilevate dalla Fed di New York, sull’indice manifatturiero di New York, sulle vendite al dettaglio, sulla produzione industriale, sull’indice NAHB (mercato immobiliare), sulle scorte e produzione di greggio, sull'accoppiata permessi di costruzione e nuovi cantieri edili, sull’indice manifatturiero della Fed di Philadelphia e sulle nuove richieste di sussidi di disoccupazione. Nel caso dell’Australia si attendono i verbali dell’ultima riunione di politica monetaria della RBA. Per il Giappone focus sulla produzione industriale, bilancia commerciale e l’indice dei prezzi al consumo. Infine, per la Cina verranno diffuse le letture dell’indice dei prezzi delle abitazioni, il PIL del primo trimestre, la produzione industriale, le vendite al dettaglio e il tasso di disoccupazione.
VENERDI’
I listini dell’Asia hanno chiuso misti. Nei singoli paesi lo Shanghai composite +0,46%, China A50 +0,06%, Hang Seng chiuso +0,96%, il Nikkei chiuso -4,38%, l’Australia -1,37%, Taiwan +2,14%, la Corea del Sud Kospi -0,94%, l’indice Indiano Sensex +1,75%. Il nostro FTSEMib -0,73%, Dax chiuso -0,92%, Ftse100 +0,64%, Cac40 -0,30%, Zurigo -0,04%. Lo S&P500 +1,81%, il Nasdaq +2,06%, il Russell2000 +1,57%. L’oro ha chiuso a 3.244,60 dollari l’oncia, mentre il petrolio ha scambiato a 61,50$ per il wti e 64,76$ per il brent inglese. Il prezzo del Natural Gas (TTF) quotato sul mercato di Amsterdam è di € 33,463. Lo spread BTP/BUND 125,950. L’indice VIX (il termometro dei mercati cioè la volatilità) chiude a 37,56%. Nel periodo pre-covid si attestava tra il 20% e l’11% e sono i due livelli entro cui vi è tranquillità nei mercati finanziari.
PRE-APERTURE
I listini dell’Asia si avviano a chiudere positivi. Nei singoli paesi lo Shanghai composite +0,71%, China A50 +0,32%, Hang Seng chiuso +2,02%, il Nikkei chiuso +1,65%, l’Australia +1,27%, Taiwan -0,08%, la Corea del Sud Kospi +0,92%, l’indice Indiano Sensex +1,77%. Al momento in cui scrivo i mercati europei hanno una previsione di apertura positiva così come gli Stati Uniti. L’oro si attesta a 3.244,00 dollari l’oncia, mentre il petrolio chiude intorno ai valori di 61,44$ per il greggio e 64,66$ per il brent. Infine, il Bitcoin quota 84.544 e l’Ethereum 1.623.
Buona giornata e buona settimana.

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