Pillole di Mercato
- Federico Caligiuri
- 7 apr
- Tempo di lettura: 6 min
(15° settimana - anno 2025)

Citazione del giorno:
Emily Dickinson: "E’ la speranza una creatura alata che si annida nell’anima – e canta melodie senza parole – senza smettere mai"
In soli due giorni sono evaporati oltre 5.000 miliardi di dollari dai mercati statunitensi. L’S&P 500 è crollato come non accadeva dal marzo 2020. Il Nasdaq è entrato ufficialmente in bear market, giù di 11 punti percentuali nelle ultime 48 ore. La velocità del crollo spaventa. Sono bastate 32 sedute per entrare in bear market. È la terza discesa più rapida dal 2000. Più veloce di così, solo la bolla dot-com e il crollo del Covid. Il sell-off non fa distinzioni. Colpisce i titoli tech, gli industriali, i finanziari. Nessuno si salva, nemmeno i giganti. Le aziende che solo pochi mesi fa si contendevano la vetta dei 3.000 miliardi di capitalizzazione ora arrancano. Apple ha chiuso la settimana a 2.800 miliardi. Nvidia ha perso oltre il 7% in una singola seduta. I titoli più amati dell’intelligenza artificiale, come Marvell e Constellation Energy, affondano del 45%. Airbnb e Dexcom lasciano sul campo più del 30%. E la paura si fa di nuovo visibile. Il VIX, l’indice della volatilità, schizza ai massimi da aprile 2020 (anche se c'è stata la parentesi di agosto scorso 65,73%). Le azioni scendono, ma restano care. Il rapporto prezzo/utili del Nasdaq è calato, ma siamo ancora a 28. La media degli ultimi vent’anni è 25. Intanto i segnali di fuga si moltiplicano. I rendimenti dei Treasury scendono sotto il 4%. Il petrolio crolla ai minimi da quattro anni. Il dollaro ha chiuso la settimana in calo, ma venerdì è tornato a salire. Powell ha parlato da Washington. Nessuna conferenza stampa. Nessun annuncio ufficiale. Solo un discorso pubblico, ma con un messaggio chiaro. I dazi imposti da Trump rischiano di fare più danni del previsto. I mercati adesso scommettono su almeno quattro tagli dei tassi da qui a fine anno. Fino a mercoledì scorso, ne vedevano solo tre. I dati sull’occupazione sembrano ancora solidi, ma risalgono a prima dell’effetto delle nuove tariffe. Ora lo scenario è cambiato. E il peggio, forse, deve ancora arrivare. Donald Trump ha annunciato i nuovi dazi “reciproci”. Il concetto, già di per sé fumoso, suona semplice solo in teoria: far pagare agli altri le stesse tariffe (barriere non tarriffarie - tipo IVA Italiana) che subiscono gli esportatori americani. Appena si scende nei dettagli diventa un nido di vespe diplomatico, commerciale e politico. Nessuno sa davvero cosa significhi e questo è parte del problema. C’è chi pensa che i mercati potrebbero reagire bene. Che il classico annuncio iperbolico sia solo un bluff iniziale per avviare trattative. Ma basta guardarsi indietro per capire che potrebbe non essere così semplice. L’accordo NAFTA con Messico e Canada doveva essere una trattativa rapida e indolore, e invece ha causato mesi di caos, minacce e una bella dose di volatilità sui mercati. All’inizio sembrava tutto sotto controllo. Poi, nel bel mezzo dei negoziati, Trump impose dazi su acciaio e alluminio anche ai due alleati storici, aprì un’indagine sulle auto messicane e attaccò pubblicamente il primo ministro canadese. Alla fine, l’accordo USMCA arrivò, sì (2020). Ma dopo anni di battaglie. Ora immaginate lo stesso film, ma con 15 paesi contemporaneamente. Con partner commerciali che non condividono nemmeno la stessa idea di “reciprocità”. Per Trump, anche l’IVA europea, le normative alimentari o i controlli di sicurezza possono essere barriere ingiuste. Quelle regole non sono messe lì per colpire gli USA, ma sono parte integrante delle legislazioni locali e, in molti casi, sono intoccabili. Chiedere a un paese di abbassare l’IVA significa, in sostanza, metterlo a rischio di crisi fiscale. E mentre l’America non ha una VAT, potrebbe introdurne una se davvero volesse giocare sullo stesso campo. I margini per negoziare sono ridotti all’osso. E se il piano è quello, chi dovrebbe sedersi al tavolo delle trattative? Secondo Goldman Sachs, uno scenario “moderato” che tiene conto solo delle differenze tariffarie effettive porterebbe le tariffe medie USA ad aumentare dell’1-2%. Uno shock ancora gestibile per i mercati. Ma basta aggiungere barriere non tariffarie, IVA e questioni valutarie, e si arriva facilmente a un +30%. Gli Stati Uniti passerebbero da un'aliquota media dei dazi dell'1,5% a livelli talmente alti da uscire completamente dalla scala rispetto agli altri Paesi OCSE. Eppure, mercoledì, Trump ha definito la sua proposta “molto indulgente” e “abbastanza conservativa”. Ma sappiamo tutti com’è fatto: oggi dice una cosa, domani potrebbe dirne un’altra. Se l’intenzione è davvero aprire i negoziati, allora prepariamoci a mesi (se non anni) di tira e molla, retromarce e colpi di scena, con gli investitori lasciati a indovinare la prossima mossa. Un giorno si sale, il giorno dopo si scende. Un’altalena perfetta per alimentare la volatilità. Nessuno sa davvero dove ci porteranno questi dazi. Proprio per questo, abbassare la guardia adesso sarebbe un errore. I dati sul mercato del lavoro erano attesi, ma nessuno venerdì sembrava interessarsene davvero. La notizia vera è arrivata da Pechino, con una ritorsione che ha fatto rumore più di qualsiasi payroll: dazi del 34% contro i prodotti americani. Il mercato ha incassato il colpo e i trader hanno scrollato le spalle a un rapporto sull’occupazione che in altri tempi avrebbe fatto schizzare le Borse. Eppure il numero è di quelli che non si ignorano. Gli Stati Uniti hanno creato 228.000 posti di lavoro a marzo. Il doppio di febbraio. Più di ogni stima. Più di quanto si aspettasse anche il più ottimista degli analisti. Una sorpresa vera, ma che non basta a cambiare l’umore. La disoccupazione è salita al 4,2% anche se il numero degli occupati è aumentato. Il motivo è che più persone sono tornate nel mercato del lavoro. In altri contesti sarebbe un segnale di fiducia, oggi è solo un dettaglio in mezzo alla tempesta commerciale che si prepara. I numeri rivisti di gennaio e febbraio tolgono al totale 48.000 posti. Poco male, verrebbe da dire, di fronte al balzo di marzo. La crescita dei salari su base annua è scesa dal 4% al 3,8%. Una buona notizia per chi spera nei tagli dei tassi. Significa che la pressione salariale si sta allentando e, se i prezzi smettono di correre, la Fed potrebbe tornare a muoversi. Con calma, ma potrebbe farlo. Dentro il rapporto, si trovano dettagli che dipingono un quadro più complesso. La sanità continua a macinare assunzioni, 54.000 nuovi posti solo a marzo. Anche i servizi sociali crescono, con 24.000 impieghi in più. La logistica sorprende con un’accelerazione nel settore trasporti, mentre la grande distribuzione si muove poco, penalizzata dalle chiusure e dalle trasformazioni in corso. Nel settore pubblico, il governo federale continua a tagliare. Il presidente Trump, nel frattempo, rivendica il risultato: su Truth Social dice che i dati sono incredibili e che tutto "sta funzionando". La sensazione diffusa è che ci stiamo avvicinando a una fase nuova. Tutti sanno che l’economia rallenterà. Ma se il mercato del lavoro parte da una base solida, allora la frenata potrebbe essere meno brutale.
L’agenda macroeconomica che va dal 7 all’11 aprile 2025 sarà caratterizzata da alcuni dati macroeconomici di rilievo per le principali economie del Vecchio Continente e per gli Stati Uniti. A catalizzare l’attenzione degli operatori saranno i verbali dell’ultima riunione di politica monetaria della Federal Reserve e i dati dell’inflazione USA, ma non solo. Per gli Stati Uniti si attendono anche il rapporto NFIB (fiducia delle piccole e medie imprese), le vendite del commercio all’ingrosso, i dati dell’EIA sulle scorte e la produzione di greggio, le nuove richieste di sussidi di disoccupazione, i prezzi alla produzione e la fiducia dei consumatori elaborata dall’Università del Michigan. Guardando all’Eurozona, gli investitori attenderanno la fiducia degli investitori Sentix e le vendite al dettaglio. Per quanto riguarda i singoli Paesi del blocco europeo, per la Germania verranno rilasciati i dati della produzione industriale, della bilancia commerciale e dell’inflazione. Per la Francia si attende la bilancia commerciale, per la Spagna l’inflazione e per l’Italia la produzione industriale. Nel caso del Regno Unito gli operatori presteranno attenzione all’indice Halifax dei prezzi delle abitazioni, al PIL, alla produzione industriale e alla bilancia commerciale. Per la Cina focus sull’inflazione.
VENERDI’
I listini dell’Asia hanno chiuso negativi. Nei singoli paesi lo Shanghai composite chiuso per festività, China A50 chiuso per festività, Hang Seng chiuso per festività, il Nikkei chiuso -3,15%, l’Australia -0,94%, Taiwan chiusa per festività, la Corea del Sud Kospi -0,85%, l’indice Indiano Sensex ha chiuso a -0,21%. Il nostro FTSEMib -6,53%, Dax chiuso -4,95%, Ftse100 -4,95%, Cac40 -4,26%, Zurigo -5,14%. Lo S&P500 -5,97%, il Nasdaq -5,82%, il Russell2000 -4,37%. L’oro ha chiuso a 3.057,10 dollari l’oncia, mentre il petrolio ha scambiato a 62,35$ per il wti e 65,69$ per il brent inglese. Il prezzo del Natural Gas (TTF) quotato sul mercato di Amsterdam è di € 36,401. Lo spread BTP/BUND 119,700. L’indice VIX (il termometro dei mercati cioè la volatilità) chiude a 45,31%. Nel periodo pre-covid si attestava tra il 20% e l’11% e sono i due livelli entro cui vi è tranquillità nei mercati finanziari.
PRE-APERTURE
I listini dell’Asia si avviano a chiudere fortemente negativi. Nei singoli paesi lo Shanghai composite -6,56%, China A50 -5,56%, Hang Seng chiuso -11,01%, il Nikkei chiuso -6,90%, l’Australia -4,29%, Taiwan chiusa per festività, la Corea del Sud Kospi -5,24%, l’indice Indiano Sensex ha chiuso a -3,97%. Al momento in cui scrivo i mercati europei hanno una previsione di apertura negativa così come gli Stati Uniti. L’oro si attesta a 3.051,50dollari l’oncia, mentre il petrolio chiude intorno ai valori di 60,34$ per il greggio e 63,88$ per il brent. Infine, il Bitcoin quota 76.720 e l’Ethereum 1.539.
Buona giornata e buona settimana.

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