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Pillole di Mercato

(7° settimana - anno 2025)

Citazione del giorno:

Seneca: "La fortuna non esiste: esiste il momento in cui il talento incontra l’occasione"

 

Era un trade da manuale a dicembre. Trump torna alla Casa Bianca e ha tutta l'intenzione di scaldare l’economia. Gli investitori si lanciano sulle azioni, vendono bond governativi e puntano tutto sul dollaro. Sembrava una scommessa sicura. Peccato che, dopo poco più di un mese, le cose non stiano andando come previsto. L’S&P 500 è salito, ma rispetto ai mercati internazionali sembra un po’ un fanalino di coda. I rendimenti dei Treasury a 10 anni sono scesi sotto il 4,5%, mentre il dollaro ha perso terreno. La volatilità è tornata protagonista, con oscillazioni frenetiche che mettono alla prova i trader abituati a comprare ogni piccolo calo del mercato. Se da un lato questa strategia ha frenato le vendite, dall’altro contribuisce agli scossoni. Con un posizionamento ultra-rialzista, basta una brutta notizia su dazi o tassi per mandare tutto all’aria. Questa settimana ha racchiuso tutta la turbolenza del momento. Lunedì l’S&P 500 ha aperto con un tonfo del 2% per le preoccupazioni sui dazi, salvo poi recuperare quasi tutto dopo che Trump ha deciso di rimandare di un mese le tariffe contro Canada e Messico. Le azioni hanno retto nonostante le deludenti trimestrali tech. Fino a venerdì. Il report sull’occupazione ha raffreddato le speranze di un taglio dei tassi da parte della Fed e Trump ha lasciato intendere nuovi dazi imminenti. Alla fine, l’S&P 500 ha chiuso la settimana con un -0,2%. Il report ha mostrato un mercato del lavoro ancora solido, ma in rallentamento: +143.000 nuovi posti di lavoro (sotto le attese). Disoccupazione al 4%. Salari in crescita dello 0,5% su base mensile. Buone notizie per i lavoratori, pessime per i tassi. La Fed non ha nessuna fretta di tagliare. Dopo un 2024 da protagonista, Bitcoin ha iniziato il 2025 con il freno a mano tirato (+3% YTD). L’oro a confronto ha guadagnato il 9% e toccato un nuovo record a 2.882 dollari l’oncia. Il WTI ha chiuso in ribasso dopo che Trump ha promesso di pompare più petrolio per abbassare i prezzi e combattere l’inflazione. Peccato che il mercato non gli crede. Le scorte di greggio negli USA sono esplose di 8,7 milioni di barili (contro i 2 milioni previsti). E gli hedge fund stanno fuggendo. Le scommesse ribassiste sul WTI sono arrivate al massimo da ottobre. I trader vedono troppa offerta e troppe incertezze su domanda e commercio globale. L’Europa entra nel 4° anno consecutivo di crisi energetica e, diciamolo chiaramente, la situazione non è delle migliori. Dopo due inverni insolitamente miti, gli stoccaggi europei si stanno svuotando a una velocità preoccupante, tanto che i prezzi sono tornati vicini ai massimi degli ultimi due anni. L’Europa è di nuovo nei guai perché si è convinta troppo in fretta di aver risolto la questione gas. Ma la verità è che ci siamo auto-ingannati: la riduzione della domanda è stata dovuta più alla fortuna (temperature miti) e alla de-industrializzazione forzata, che a una reale strategia efficace. E’ bastato un inverno normale per smascherare la fragilità del sistema. La perdita del gas russo via Ucraina e le settimane di vento scarso che hanno ridotto la produzione di energia rinnovabile non hanno aiutato. Se si continua così, entro la fine di questo inverno gli stoccaggi europei potrebbero scendere al 30-35% della capacità, contro il 55-60% degli anni scorsi. Più si svuotano i serbatoi, più gas bisognerà acquistare per riempirli. Ed è qui che nasce il vero problema: l’Europa deve raggiungere il 90% di riempimento entro il 1° novembre. Peccato che i prezzi stiano remando contro. Di solito, il gas costa meno in estate (quando la domanda è bassa) e di più in inverno. Questa volta è il contrario. Il mercato sa già che l’Europa dovrà acquistare enormi quantità di gas tra aprile e ottobre per ricostituire le scorte. Di conseguenza, i venditori hanno alzato i prezzi estivi rispetto a quelli invernali. Questo fenomeno si chiama "backwardation", ovvero il contrario della situazione normale in cui i prezzi invernali sono più alti di quelli estivi. Se il prezzo estivo è già così elevato, gli operatori privati non hanno alcun incentivo economico ad acquistare gas ora per rivenderlo in inverno, quando i prezzi potrebbero essere più bassi. In pratica, il meccanismo naturale che spinge al riempimento degli stoccaggi è bloccato. I politici potrebbero trovare un compromesso, magari adottando target flessibili invece di un rigido 90%. Alcuni Paesi con ampi stoccaggi potrebbero cavarsela con livelli più bassi, mentre quelli con minore capacità dovrebbero essere più prudenti. L’alternativa è usare soldi pubblici per sovvenzionare gli acquisti di gas. Non resta che sperare che: entrino in funzione nuovi terminal di gas naturale liquefatto; la domanda asiatica di GNL resti bassa; il prossimo inverno sia mite. La speranza, però, non è una strategia. In ballo c’è la sicurezza energetica di un intero continente. "La suprema arte della guerra non è vincere cento battaglie su cento, ma sottomettere il nemico senza combattere.", diceva l’antico stratega cinese Sun Tzu. E’ esattamente quello che Donald Trump e Xi Jinping stanno cercando di fare. L’ultima mossa di Trump è stata un dazio del 10% su tutti i beni cinesi. Non è il 60% che aveva minacciato in campagna elettorale, ma comunque un colpo ben assestato. La Cina ha risposto con tariffe su 80 prodotti americani per un valore di 14 miliardi di dollari, oltre a qualche "fastidio" extra: un’indagine antitrust su Google, restrizioni sulle esportazioni di minerali critici e l’inserimento di due aziende USA nella blacklist delle “entità inaffidabili”. La reazione piuttosto blanda suggerisce che Xi Jinping stia cercando di evitare uno scontro aperto. La Cina ha già i suoi problemi economici e non ha alcun interesse a peggiorare la situazione. Trump, da parte sua, vuole vedere se Pechino rispetterà l’accordo commerciale del 2020 e se Xi è pronto per un accordo commerciale di cui si parla da tempo. Se una guerra commerciale totale non è nell’interesse di Xi, è altrettanto vero che la Cina oggi è meno dipendente dagli USA rispetto al passato. Dal 2005 al 2023 il paese ha aumentato la sua quota di mercato globale in 19 dei 20 principali settori industriali. Gli Stati Uniti, invece, hanno perso terreno in 16 di questi. Gli USA rappresentano il 29% dei consumi mondiali ma producono solo il 15% dei beni. Allo stesso tempo, la Cina produce il 32% ma consuma solo il 12%. Questa dinamica crea uno squilibrio: gli USA comprano tantissimo dalla Cina, mentre la Cina non compra altrettanto dagli USA. Entrambi i paesi vorrebbero riequilibrare la situazione. Gli USA vorrebbero produrre di più in casa per ridurre la dipendenza dalla Cina, mentre la Cina vorrebbe aumentare i consumi interni per non dipendere così tanto dall’export. Ma cambiare un sistema economico così radicato non è facile e richiede tempo, investimenti e scelte politiche ben precise. Gli USA consumano molto più di quanto producono, mentre la Cina produce molto più di quanto consuma. Finché la Cina si limitava a produrre beni a basso costo, gli USA potevano accettare questo squilibrio. In fondo, avere accesso a prodotti a basso costo faceva comodo ai consumatori americani. Il problema è che la Cina non è più solo una fabbrica di beni a basso costo. Il paese sta avanzando nel settore high-tech e questo mette in allarme Washington. Il commercio tra le due superpotenze non è più solo una questione economica, ma anche strategica. Ormai, il conflitto commerciale sembra inevitabile. Il Segretario al Tesoro Scott Bessent ha difeso la strategia dei dazi davanti al Senato. Ha detto che, se il governo aumenterà i dazi, il dollaro si rafforzerà e questo aiuterà a contenere l’aumento dei prezzi per i consumatori americani. Ma c’è un problema: se il dollaro diventa troppo forte, le aziende americane avranno difficoltà a vendere i loro prodotti all’estero. Un dollaro più forte significa che i prodotti "Made in USA" costeranno di più per chi li compra da altri paesi. Se un'azienda americana produce automobili e il dollaro si rafforza, le sue macchine diventeranno più care per gli acquirenti europei, messicani o cinesi, che potrebbero preferire auto più economiche di altre marche straniere. Moltiplica questo effetto su tanti settori industriali e il risultato è chiaro: meno vendite, meno posti di lavoro, più problemi per l’economia americana. Se il dollaro si rafforza, è vero che le importazioni costano meno, perché servono meno dollari per comprarli. Se prima un telefono cinese costava 1.000 dollari, con un dollaro più forte potrebbe costarne 950. Ma questo risparmio potrebbe non essere sufficiente a bilanciare l’aumento dei prezzi dovuto ai dazi. C’è un altro punto fondamentale: Trump usa i dazi come strumento di pressione politica. Ha detto che potrebbe annullare le tariffe su Messico e Canada, ma solo se questi paesi accettano di fare di più per fermare l'immigrazione e il traffico di droga verso gli Stati Uniti. Questo crea un enorme clima di incertezza: nessuno sa davvero se Trump manterrà o meno le sue minacce. L'incertezza colpisce anche i mercati finanziari e le valute: gli investitori non sanno come muoversi e questo potrebbe portare a forti oscillazioni. Quindi, chi pagherà il conto di tutto questo? Molti pensano che le tariffe colpiscano solo i produttori stranieri, ma anche gli americani ne subiranno le conseguenze. Se il dollaro si rafforza troppo, le aziende USA perderanno competitività. Se non si rafforza abbastanza, i prezzi saliranno per i consumatori americani. Come sempre è questione di equilibri. L’agenda macroeconomica che va dal 10 al 14 febbraio 2025 sarà caratterizzata da alcuni dati macroeconomici di rilievo per le principali economie del Vecchio Continente e per gli Stati Uniti. A catalizzare l’attenzione degli operatori saranno i dati sull’inflazione degli USA, ma non solo. Per gli Stati Uniti verranno rilasciati anche i dati comunicati dall’EIA sulle scorte e la produzione di greggio, il rapporto sull’ottimismo delle piccole imprese elaborato da NFIB, le nuove richieste di sussidi di disoccupazione e i prezzi alla produzione. Fronte Banche centrali, martedì e mercoledì gli investitori presteranno attenzione alle parole del presidente della Fed, Jerome Powell, durante le audizioni al Senato e alla Camera. Passando al Vecchio Continente, per l’Eurozona si attendono i dati della fiducia degli investitori Sentix, la produzione industriale e il PIL relativo al quarto trimestre del 2024. Fronte Regno Unito, gli investitori monitoreranno i dati del PIL, bilancia commerciale e la produzione industriale.

 

VENERDI’

I listini dell’Asia hanno chiuso misti. Nei singoli paesi lo Shanghai composite +1,02%, China A50 +0,95%, Hang Seng +1,00%, il Nikkei chiuso -0,60%, l’Australia -0,11%, Taiwan +0,69%, la Corea del Sud Kospi -0,58%, l’indice Indiano Sensex ha chiuso a -0,19%. Il nostro FTSEMib -0,18%, Dax chiuso -0,53%, Ftse100 -0,31%, Cac40 -0,43%, Zurigo -0,24%. Lo S&P500 -0,35%, il Nasdaq -1,96%, il Russell2000 -1,19%. L’oro ha chiuso a 2.887,60 dollari l’oncia, mentre il petrolio ha scambiato a 71,00$ per il wti e 74,66$ per il brent inglese.  Il prezzo del Natural Gas (TTF) quotato sul mercato di Amsterdam è di € 55,723. Lo spread BTP/BUND 109,400. L’indice VIX (il termometro dei mercati cioè la volatilità) chiude a 16,54%. Nel periodo pre-covid si attestava tra il 20% e l’11% e sono i due livelli entro cui vi è tranquillità nei mercati finanziari.

 

PRE-APERTURE

I listini dell’Asia si avviano a chiudere per lo più positivi. Nei singoli paesi lo Shanghai composite +0,46%, China A50 +0,02%, Hang Seng +1,83%, il Nikkei chiuso +0,07%, l’Australia -0,34%, Taiwan -0,96%, la Corea del Sud Kospi +0,08%, l’indice Indiano Sensex ha chiuso a -0,69%. Al momento in cui scrivo i mercati europei hanno una previsione di apertura positiva così come gli Stati Uniti. L’oro si attesta a 2.908,59 dollari l’oncia, mentre il petrolio chiude intorno ai valori di 71,39$ per il greggio e 75,07$ per il brent. Infine, il Bitcoin quota 96.819 e l’Ethereum 2.628.

 

Buona giornata e buona settimana.



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